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La Primavera, una questione di pelle. Storie di donne maltrattate.

  • Dr. Morena De Sarro Psicologa
  • 14 gen 2017
  • Tempo di lettura: 4 min

Il termine primavera deriva dalle parole primus, cioè primo e ver, che deriva dalla radice sanscrita vas, che significa “splendere, illuminare, ardere”. L'etimo ci rivela una considerazione solenne: la primavera è inizio. Inizio di splendore, per tutto e per tutti.

Ma quando un’esperienza così dolorosa come un abuso o un maltrattamento porta via la luce, quale primavera è possibile? Come può risplendere un corpo privato della propria identità, del proprio splendore? Anzieu (2005) sostiene che “la pelle fornisce all’apparato psichico le rappresentazioni costitutive dell’Io e delle sue funzioni principali” (ibid., 2005, p.121). “L’Io-pelle ha una funzione di involucro contenitore e unificante del Sé, una funzione di barriera protettiva della vita psichica, una funzione di filtro degli scambi e di iscrizione delle prime tracce, funzione che rende possibile la rappresentazione (ibid. 2005, p.123).

Nelle donne vittime di violenza, abuso e maltrattamento la pelle viene lacerata, da contenitore diventa trappola, la funzione unificante del Sé non è più accessibile, manca la protezione e lo scambio evolutivo e vitale. Il flusso emotivo si arresta, la rappresentazione di ciò che si sente non è più accessibile. Il senso di vuoto e di impotenza pervade l’identità soggettiva, sessuale e corporea.

Quale risposta alla domanda Chi sono?

Considerando che “La narrazione che ognuno fa della propria storia rimanda continuamente al senso della propria identità, che a sua volta riflette la trama degli affetti all’interno del quale si è sviluppata la sua esistenza...” (Marranca, 2002, p. 21).

Ci chiediamo ora come sia possibile narrare qualcosa di innominabile, ma che allo stesso tempo si radica nell’identità della donna in maniera così profonda da diventare parte di essa.

Jung sottolineava: “Qualsiasi cosa abbia un'intensa tonalità affettiva è difficile da trattare, perché questi contenuti sono misteriosamente associati a reazioni fisiologiche... Ogni qualvolta la tensione sale, è come se quel particolare complesso avesse un proprio corpo, come se, in un certo senso, fosse localizzato nel mio corpo, il che lo rende ingombrante, fastidioso perché non è facile cacciar via qualcosa che è radicato nel mio corpo e mi rende teso, nervoso”.

Nell’abuso e nel maltrattamento, l’aspetto primario da tenere presente è quanto questo tipo di vissuto si inscriva nel corpo prima ancora che nel pensiero.

Quella stessa carezza che prima dava sollievo, adesso terrorizza, la pelle si allerta e il linguaggio della tenerezza lascia il posto al linguaggio della passione (Ferenczi, 1919).

Che direzione bisogna intraprendere allora? Come posso desiderare una vicinanza fisica affettiva senza collegarla al vissuto traumatico?

Emerge qui la necessità di accettare, prendere con sé, contenere l’accaduto per dare significato storico ad una vicenda così pregnante…

La condizione dell’essere umano è caratterizzato da un costante oscillare tra l’avere un corpo e l’essere il corpo, quest’ultimo diventa contemporaneamente oggetto e soggetto della percezione.

In un’identità corporea ferita, l’integrazione del trauma come evento della propria storia non è dato solo dal ricucire le ferite, ma è dato soprattutto dalla costruzione e scoperta di nuovi racconti. Non è solo un corpo di cui prendersi cura e a cui iniziare a voler bene, ma è il corpo stesso che risvegliando il suo sentire ci fa vivere nuove percezioni, nuove sensazioni, nuove esperienze.

Così narrava una paziente nel momento della sua rinascita:

“Mi sento come un pezzo di ghiaccio che sta cominciando a scaldarsi, riesco ora a vedermi dentro, ma ancora riesco poco a sentire… E’ forse questo sentire che mi spaventa? Forse si, sentire questo senso di impotenza e di sopraffazione… ma ora sono stanca di seguire il flusso di ciò che mi è stato appiccicato addosso, ora voglio muovermi a ritmo delle mie emozioni, solo io e il mio corpo. Trovare nuove strade, nuovi percorsi, entrare in con-tatto con la mia pelle, le mie mani, i miei piedi, il mio cuore…”

Il corpo umano è naturalmente predisposto al movimento, la pelle, i muscoli, la struttura ossea sono un invito costante alla Danza, intesa come capacità profonda di espressione, comunicazione e relazione. E se fosse proprio il mio movimento interiore che volessi seguire?

La danza e, più in generale, il movimento espressivo del corpo, è uno dei modi attraverso cui l'inconscio può affiorare alla coscienza; il coinvolgimento diretto del corpo riporta a livelli pre-verbali attivando canali espressivi molto arcaici (Ottone S., 2011) La Danza, più di altre pratiche motorie o sportive, restituisce alla persona la possibilità di vivere, attraverso il movimento, un’esperienza totale e completa. Il corpo diventa veicolo di sensazioni, emozioni e sentimenti.

La Danzaterapia è ricerca di possibilità e non ripetizione di cose apprese, rimette in moto il flusso emotivo interrotto, come viaggio terapeutico che esplora nuove trame narrative.

“Un viaggio su strade a volte ampie, distese ed asfaltate come autostrade, a volte sassose ed impervie, ombrose e umide, oppure assolate e incandescenti. Sentieri che s’inerpicano in mezzo a scenari incantevoli e che scendono a precipizio in angusti cunicoli. Questo è un viaggio interiore, in mezzo ai vissuti più profondi, in compagnia delle proprie percezioni” (ibid. p.15).

E’ un cammino di riappropriazione del linguaggio corporeo attraverso stimoli creativi che favoriscono il ricongiungimento del movimento al "sentire" unico e vivo di ogni essere umano.

La Danzaterapia si basa sulla possibilità di un cambiamento che permetta di uscire e abbandonare gradualmente la rigidità, la paura, l'instabilità, indipendentemente dallo stato psichico, fisico e sociale di ciascuno. Quando a causa della malattia, dei traumi, della depressione o della perdita di interesse verso quanto circonda, ci si allontana da se stessi e si entra nei campi nebbiosi del "non sentire", la Danzaterapia che è anche un movimento di affermazione e recupero della propria identità può ricondurre alla dimensione del piacere, dell'equilibrio, della creazione (Pio Campo).

“Per tanto tempo non sapevo chi ero intimamente nello spirito e nell'anima e non sapevo, o meglio non volevo sapere, di avere un corpo. Il mio corpo deturpato, derubato, abusato, toccato, violato, non era mai stato veramente mio, o forse si, solo quando danzavo. La paura di mettersi a nudo era tanta, ma la voglia di superare anche questo limite era più forte e così nella mia mente, attraverso il mio corpo, ho iniziato a danzare, sapendo che finché avrei avuto questa compagna di vita niente e nessuno avrebbe più potuto farmi cadere”.


Dott.ssa Morena De Sarro

Psicologa

Bibliografia

Anzieu D. (2005). L’Io Pelle, Roma, Borla.

Anziliero D., (2008). Il gesto racconta. Come “danzare una storia” con il malato psichiatrico adulto: il vissuto corporeo e la simbologia del movimento, Edizioni del Cerro.

C. G. Jung, (1935). Fondamenti della psicologia analitica, in Opere, vol. 15, Torino, Boringhieri, 1991.

Ferenczi S., (1919). Tratto da Fondamenti di Psicoanalisi, Vol. III.

Fux M., (1981), Frammenti della vita nella danzaterapia, Tirrenia-Pisa, Edizioni del Cerro.

Marranca A. (2002). Soggetti narranti. Raccontarsi per conoscersi, Roma, Armando Editore.

Ottone S. (2011). Danzare il simbolo. DanzaMovimentoTerapia nel mondo del tossicomane, Tirrenia-Pisa, Edizioni Creativa.



 
 
 

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